Cappella del Lupo

LA CAPPELLA DEL LUPO

Troneggiava da uno scoglio di dolomia rivestita di licheni e di muffe, bianca e gentile con il piccolo tetto, a due falde, in tegole rosse e la piccola e ferrea croce latina al culmine. È stata inesorabilmente abbattuta, dalla ruspa e dal piccone demolitore, ai primi di settembre 1968, durante l’allargamento dell’ombreggiata e tortuosa strada cantonale che, dall’abitato di Campestro, porta alla frazione di Cagiallo, ossia Bettagno. Tutti la ricordavano con il nome della cappella di Cugnolo, l’antica frazione di Campestro, ma particolarmente con la denominazione della CAPPELLA DEL LUPO. Recava posteriormente, in alto, ben visibile, nonostante gli anni, la data 1787 e le lettere maiuscole G:F:A. a perenne segno di una reale storica avvenuta che merita di essere segnalata e che accadde esattamente la notte di Natale del 1786.

                                         PRIMA

                     DOPO

In quei tempi duri, con scarse comodità e risorse, la maggior parte degli abitanti di Campestro, si recava Svizzera Interna, nel Giura, valicando il nevoso San Gottardo, in Francia, tutto a piedi, in cerca di lavoro, pane e fortuna. Partivano non appena la primavera spiegava le ali sulla campagna, in folto e compatto gruppo per essere maggiormente vicini nelle difficoltà e affinchè il viaggio sembrasse meno triste e più breve. Trovavano immediata occupazione perchè già noti ai datori di lavoro, ma principalmente perchè, meglio di tutti i comfederati, esercitavano a perfezione l’arte muratoria in pietra viva, sia liscia che a vistose bugnature. Restavano lontani da casa parte della primavera, l’intera estate e quindi tutto l’autunno lasciando alle donne e ai fanciulli grandicelli il disbrigo delle faccende agricole. Ritornavano poi al villaggio, sempre a piedi, quando la grigia calce cominciava a gelare nella profonda buca scavata nella terra o nel secchio pesante e, al più tardi, per le feste di Natale per trascorrere, tra le mura domestiche, questa solennità allora, più che mai, fortemente sentita e vivamente attesa.

Quell’anno come d’abitudine, Giovanni Francesco Ardia, figlio di Giuseppe, Console dell’Oratorio di Sant’Andrea di Campestro, robusto e provetto maestro d’arte muratoria, aveva varcato il San Gottardo, con l’entusiasmo e la volontà che gli erano particolari. S’era fermato a Lachen, sulle ubertose sponde del lago di Zurigo, presso un capace e caro capomastro che, già la scorsa stagione, l’aveva avuto, con tanta soddisfazione, alle sue dipendenze. L’occupazione era stata abbondante ed aveva potuto, con molte fatiche e risparmio, raggranellare una discreta somma di denaro destinata alla famiglia, ma segnatamente ad abbellire la vecchia dimora ticinese, in capo al paese, che portava la data del 1626.

Quando le grosse campane a sbalzo della cittadina tedesca, famosa ancor oggi per i suoi mercati, segnarono l’avvicinarsi del Natale, spinto da una profonda nostalgia, salutò affettuosamente il padrone a cui promise di essere da lui la prossima primavera, i compagni di lavoro, raccolse nel suo sacco di montagna martello, cazzuola, fratazzo, filo a piombo archipenzolo e squadra, nascose in una tasca interna del panciotto tutti i suoi guadagni e, di buon passo, si mise sulla via del lontano Ticino. Anche laggiù molte cose l’attendevano e parecchi progetti per la casa, il monte, il paese e la chiesa aveva annotato sulla sua agenda tascabile durante le soste domenicali nel Lachen familiare.

Superò tutto solo l’imponente Gottardo, attraversò la rupestre e boscosa Leventina, tutta la pianeggiante Riviera. Si rifocillò nelle locande note, trovò buon riposo nei pagliai che la buona gente gli offriva, evitando, il più possibile, i posti supposti covo di briganti, a quel tempo assai numerosi, avidi del denaro frutto delle fatiche altrui. Transitò da Bellinzo- na, tutta raccolta all’ombra dei suoi tre castelli, toccò Isone, con il suo rinomato alpe del Tiglio, e giunse a Gola di Lago quando il campanone, allora di 25 quintali, della plebana di Tesserete di Santo Stefano, suonava a distesa annunciando il Natale ormai alle porte. Aveva dovuto percorrere quest’ultimo tratto di strada e in quel senso, perchè da quei punti non ne partivano di maestre ed anchè per il fatto che, provenendo da nord, quel tragitto era per lui, molto pratico del luogo, più breve e diretto per raggiungere il suo paese.

 Quale gioia provò in quell’istante, rimirando dalla ventosa bocchetta, presso le tracce della gran strada romana che portava al nord, e dall’alto la sua Capriasca, nella grandiosa conca, è difficile descriverlo! Quale emozione poi nell’essere già tanto vicino ai suoi cari che pensava accanto al grande focolare in cui ardeva, in grandi faville, il grosso ceppo tenuto in serbo, sin dall’inizio dell’anno, per alimentare il fuoco durante la novena di Natale!

 Raddoppiò il passo, guadagnò la discesa per sentieri accidentati, e quando incominciava ad imbrunire, imboccò, con baldanza, la mulatiera che conduceva al suo villaggio. Non aveva percorso che mezzo chilometro, quando dalla fitta boscaglia di castagni, querce, frassini e betulle vicina, balzò fuori un grosso lupo, nero, irsuto e minaccioso che si pose ad inseguirlo pazzatamente.

 Nel grave pericolo Giovanni Francesco mise le ali ai piedi, ma si sentì perso. Allora, scorgendo a fianco della strada un rugoso e svettante castagno, vi si arrampicò su con la forza della disperazione.

 Era appena arrivato ai rami maggiori, completamente spossato, quasi fuor di sè per lo spavento, che il feroce lupo era alla base dell’albero e, con lunghi e misurati salti, minacciava di afferrarlo per le scarpe con i suoi denti avidi e aguzzi per strapparlo giù.

 Le energie l’abbandonavano; vistosi perduto Giovanni Francesco invocò la Vergine, promettendo di erigere, sul gran sasso che lo fronteggiava, una cappella in suo favore se l’avesse tratto dalla spaventosa situazione. Improvvisamente gli balenò un’idea. Puntanto i piedi sui rami e appoggiandosi anche con la schiena al tronco, con non poco stento, si levò il mantello e si tolse la larga cintura di stoffa rossa che gli reggeva i pantaloni. Piegò il primo a guida di bariletto che fasciò accuratamente con la seconda. Poi lanciò l’involto giù per la ripida scarpata sottostante, monda da vegeta- zione e resa più sdrucciodevole dal gelo prolungato. Al rotolare celere di quell’involto, il lupo si buttò giù all’inse- guimento della preda. Non ritornò più.

La primavera seguente, sul piccolo pianoro al sommo del bruno masso, dirimpeto al castagno, sorgeva la cappella votiva, costruita dalle stesse mani di Giovanni Francesco, con l’effige della Madonna al centro della parete e il lupo mansueto al fianco, San Giovanni e San Francesco in quelle laterali, dipinti da un pittore lombardo di passaggio che non ha lasciato traccia del suo nome.
Ora la cappella è scomparsa.